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poesia volgare, o italiana, vestita cioè di quelle estrinseche qualità.che seco porta fra noi. Estrinseche qualità della, poesia io chiamo l'idioma in che viene esposta, il numero in che risuona, e i diversi collegamenti del numero redesimo, onde ne nascono le diverse tessiture de' poemi, che da esse prendon lor nome. Quindi, supposto che la poesia in genere avesse cominciamento col mondo stesso, ci faremo ad esaminare quando cominciasse ad essere vestita di questo nostro linguaggio, ed a risuonare in quella ritmica dolcezza, che ha fra noi, e ad esser ristretta in quei determinati armonici numeri, che presentemente riconosce per suoi: lo che fatto, dell'origine sua avremo piena contezza; nè altro a vedere ci rimarrà, se non quali poi fossero i progressi suoi, e le vicende, cui ella di tempo in tempo soggiacque.

S. I.

Origine della Lingua Italiana.

COMUNEMENTE

MENTE si tiene esser nata la nostra lingua dalla latina favella, corrotta dal miscuglio delle strane voci, che vi aggiunsero i popoli dagli antichi Romani soggiogati, e di poi guasta affatto per le incursioni fatte ne' secoli di mezzo sulla misera Italia dagli Unni, Vandali, Goti, Longobardi, e da altre simili straniere nazioni. Tuttavia si deve riflettere, come, assai prima che

le greche colonie venissero ad invader l'Italia, era mestiere che quivi un linguaggio si parlasse per lunga serie di secoli stabilito, recatovi da Giavano, figlio di Jafet, o sia Giano, o Atlante Italico, figliuolo di Giapeto, detto ancora Saturno. Fosse poi questo da principio o siriaco o cananeo, o di qualunque altro dialetto ebraico, poco ora preme d'investigare. Pare ad alcuni dotti che l'idioma usato già dagli Etruschi, i quali gran tempo signoreggiarono questa bella parte d'Europa, quello debba senza alcun dubbio credersi l'antichissimo linguaggio d'Italia, al qual sentimento io volentieri m'appiglio.

Potevano bene le greche genti impadronirsi a forza d'armi dell' italiche terre, ma non già l'idioma loro conservar di maniera quivi intatto, che pel commercio de' soggiogati non venisse a corrompersi; la qual cosa ognuno terrà per ferma, qualunque volta voglia riflettere, che maggiore doveva sempre essere il numero de' soggiogati di quello de' soggiogatori, onde più quelli a questi, che al contrario per farsi intendere accomunar si dovevano. Avvenne quindi che i Greci, parte ritenendo del loro linguaggio, parte aggiungendovene di quello che si parlava in Italia, diedero nascimento alla latina favella. Usarono in questa da principio i loro greci primitivi caratteri, poi riformatili, come ora gli abbiamo, ed a poco a poco alterando, purgando, e stabilendo con nuove leggi il latino, furono in istato di non intendere più moltissime delle loro antiche voci,

di modo che Lucio Elio Strilone interpretar volendo i Carmi Saliari, fu costretto, come attesta Varrone (1), a omettere molte cose a cagione di non intenderle.

Ma la nuova lingua latina, a questo modo nata e cresciuta, non fu già bastevole a togliere dal volgo l'antico linguaggio d'Italia, o etrusco; perchè naturalmente dovette questo conservarsi in coloro, che fin dal principio, non intendendo il greco, ebbero d'uopo spiegarsi co❜termini loro natii, i quali domesticamente passarono poi di padre in figlio, insensibilmente fors' anco variandosi, ma serbando radicalmente i segni della loro origine. Questa conghiettura potrebbe prendersi a gabbo, se dall'autorità degli antichi scrittori non venisse a dimostrarsi una evidentissima verità. Fin dopo l'ingrandimento del romano impero, e stabilito già il latino in Italia, parlavasi tuttavia, per testimonio di Velleio Patercolo (2), la lingua Osca da' Cumani, la qual lingua, secondo Giusto Lipsio, altro non era che un dialetto etru. sco; onde può essere che ancora la denominazione di Osca venisse da Thusca. Nè questi popoli ottennero di poter usar negli atti pubblici il latino, se non se sotto il consolato di Albino Gaio, è di Calpurnio Pisone l'anno di Roma 575, e IIL dopo la morte d'Annibale, come si ha da Tito Li

(1) Lib. 6, De Lingua Lat.

(2) Lib. 1.

vio (1). Questa medesima lingua Osca parlavasi pur da' Campani e da' Sanniti, come. oltre Livio, conferma Tacito (2). Nè fuori di Roma soltanto, fa questa lingua in vigore, ma in Roma stessa ancora dopo la mancanza degli Osci, di modo che si rappresentavano pubbliche commedie Atellane in quella lingua, come veniamo da Strabone assicurati: Quum Oscorum gens interierit, sermo eorum apud Romanos restat, ita ut carmina quaedam, ac Mimi certo quodam certamine, quod instituto Maiorum celebratur, in scenam producantur (3). Molte terre parimente, al dir di Varrone, fino a' tempi suoi avevano conservato il linguaggio Sabino, che pur era un corrotto dialetto etrusco: Multae vocabulum non Latinum, sed Sabinum est, idque ad meam memoriam mansit in lingua Samnitium, qui sunt a Sabinis nati (4). Nè per guardingache fosse la romana lingua di non confondersi con altre nel suo pieno stabilimento, potè a meno di spesso non adottare dal volgo più voci; quindi Macrobio, dopo d'aver recati molti termini strani usati dagli antichi scrittori, soggiunge: nec non et punicis, oscisque verbis usi sunt veteres (5); e reca altresì diversi vocaboli etruschi (6) da' Latini adoperati; tanto esser dovevano in uso nel parlar familiare del vol

(1) Hist., lib. 40.
(2) Ann., lib. 4.

(4) Lib. 19, Rer. hum. (5) Saturnal. lib. 6.

(3) Geograph., lib. 5. (6) Ib., lib. 1. Lib. 3.

go. Non ispense dunque il latino linguaggio gli altri parlari, come potrebbe far credere ad alcuno quel detto di s. Agostino: Data est opera, ut Civitas imperiosa non solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem societatis imponeret (1); ma solo volle essere usato negli atti pubblici delle genti soggette, lasciando intanto, che la plebe al proprio modo parlasse.

Due pertanto erano i modi di parlare nel lazio come dimostra con immensa erudizione Celso Cittadini nel Trattato dell' Origine della Volgar Lingua; il puro cioè, ed il volgare, o sia il sublime, ed il plebeo. E questo parlar volgare e plebeo era di modo usitato, e famigliare, chè acciò i fanciulli potessero ben apprendere il puro e sublime conveniva istruirli nella latina grammatica, come dimostra Carlo Dati (2), il Fontanini (3), e, con l'autorità di Svetonio, di Varrone e di Tullio contra il Salvini, l'accuratissimo Muratori (4). Quindi non è maraviglia, se ancora ne' discorsi più serj sfuggissero talvolta dalle bocche de' Sa

(1) Lib. 19, De Civ. Dei, Cap. 7. Giusto Lipsio adducendo questo passo, dice, Corrigi velim sociatis, aut certe specem societatis. De recta pronunc. Linguae Lat., cap. 3, tom. 1 Operum Lugduni per Cardon, 1613, fol., pag. 394.

(2) Disc, dell'Obbligo di ben parlare la propria lingua. (3) Aminta difeso, cap. 11.

(4) Antich, d'Ital., Dissert. 32, L. 2, p. 60.

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