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mai connaturale a questa maniera di poesia. Per ciò molti dotti non approvano il consiglio del Martelli di usare il verso alessandrino de'Francesi, che per la rima si spessa reca noia e dispiacere.

E

Eco. Dal fenomeno che ci fa sentir la voce

nostra addietro ripercossa da' luoghi cavernosi o concavi, da' fisici chiamato eco, i poeti non solo tolsero argomento di fingere una favola riferita da Ovidio (1), ma altresì ne formarono uno scherzo: onde ornarono talvolta i loro componimenti. Il Ceramuele presso Federigo Meninni (2), ne diede in questi termini la definizione: Echo est figura metametrica: consistit in litterarum ultimarum repetitione. Ne abbiamo esempio in Ovidio, e presso altri. Il detto Meninni dà per regola che se venga ripetuta una voce intera, aver deggia diverso significato, ed in oltre che sia lecito nella ripetizione scambiar la lettera B in V, la qual cosa però dice che sia meglio evitare. Io vi aggiungo che la ripetizione non sia più lunga di due sillabe, cioè sia la desinenza del verso medesimo, e dell'ultima parola proferita, e che la stessa voce ripetuta, venga a significar qualche risposta all'interrogazione fatta per le antecedenti

(1) Metamorf., lib. 3.

(2) Ritratto del sonetto, cap. 18.

parole. Eccone esempio di Monsignor Daniel Barbaro, recato dal Cartari (1):

Eco, che cosa è il fin d'amore? amore.

Chi fa sua strada men sicura? cura.

Vive ella sempre, o pur sen more? more.
Debbo fuggir la sorte dura? dura.

Chi darà fine al gran dolore? l'ore. Com'ho da vincer chi è spergiura? giura. Dunque l'inganno ad amor piace? piace. Che fine è d'esso, guerra o pace? pace. Non so bene se tra i nostri siavi chi ne abbia scritto prima di Angiolo Poliziano,che di sè narra d'averne composto, ove scrive: Versiculi quidam sic facti, ut in extremis responsitationes ex persona ponantur Echus, sententiam explentes, et morem tuentes illius ultimam regerendi, quales etiam vernaculos ipsi quospiam fecimus, qui nunc a musici celebrantur (2). In fatti tra le sue cose volgari abbiamo un'ottava di questo genere, da me rincontrata ancora in un Codice della Biblioteca Laurenziana.

EGLOGA.Con questo nome, giusta l'osservazione del Turnebo (3), si volle antichissimamente indicare qualunque poesia scelta: indi si ritenne a significar soltanto alcune poesie bucoliche o pastorali, ed ancora pescatorie. Bione e Teocrito, poeti greci de'tempi di Tolomeo Filadelfo, ne scris

(1) Immagini degli Dei degli antichi. (2) Centur. Miscell., cap. 22.

(3) Advert., lib. 9.

sero d'ambe le maniere; e delle pastorali ne abbiamo tra i Latini, di Viriglio e di Calfurnio. Se ne fanno delle Monodiche, e delle Dialogistiche. Queste amano una somma semplicità, corrispondente al costume de'loro rappresentanti. Ved. PASTORALE POESIA. Presso di noi l'Egloga pastorale è più antica della pescatoria. Il Crescimbeni ne adduce per componitor più antico un certo Sannazaro di Pistoia (1), che ne ha una nella raccolta del Corbinelli, in terza rima sdrucciola. Il Corbinelli era certamente buon discernitore, e delle cose antiche intendentissimo; ma lo stile di quell' Egloga fa dubitare che egli fosse da alcuno ingannato, non sembrando ella mai fattura di que'primi secoli, come vien fatta credere; oltre di che, di questo Sannazaro di Pistoia nessuna particolar notizia, per quanto io mi sappia, ci è rimasta. Egli è però certo che nel secolo XV l'uso di queste poesie divenne frequente, e fin dal 1468 scritto aveane Iacopo Fiorino de' Buoninsegni, sanese, e in quel torno ne composero Bernardo Pulci, Francesco Arsoccchi, Girolamo Benivieni, Serafino dall'Aquila, e Antonio Tebaldeo, i quali ne avevano fatte alcune di piane, alcune di sdrucciole in terza rima. Diede l'ultima perfezione a siffate poesie il celebre Iacopo Sannazaro, la cui immortale Arcadia trovasi impressa fin dall'anno 1504. Le Egloghe di lui sogliono proporsi per esemplare. Se ne fanno dunque, co

(1) Istor. della Volg. Poesia, lib. 1, pag. 57.

me lui, delle sdrucciole, ma di raro per la diffi coltà che seco porta la rima; e in caso che si voglia in questo imitare, sarà bene sfuggire quei latinismi, che egli per far la rima sovente adoperò. Fansene pur delle piane in terza rima, se non che vi si frammischiano alcune Cantate particolari di versi Amebei, di endecasillabi, con rimalmezzo, ed altri simili, che per lo più si usano allor che si fingono i pastori più dell' ordinario accesi, o quando s'inducono a certami e gare. Veggansi questi articoli a'luoghi loro. Bernardo Tasso ne compose in versi che sembrano sciolti, ma che hanno le rime alquanto lontane; il Muzio Iustinopolitano, e Bernardino Baldi, in versi affatto sciolti. Pomponio Torelli una cantonne in otṭava rima; ma questo metro non sembra atto a tal poema. Il primo che adoperasse l'Egloga in cose pescatorie, fu Bernardo Tasso, di cui una se ne legge nel secondo libro de'suoi Amori, impressi in Vinegia per il Sabbio nel 1534, e comincia:

Là dove i bianchi piè lava il Tireno. Berardino Rota, e il conte Matteo di San Martino nel secolo stesso vi riuscirono assai bene. Ma non dovrà fidarsi di far tali componimenti chi prima non sia ben pratico de'costumi di simil gente.

ELEGIA. Non è certo presso i critici, come dice Orazio, chi fosse l'introduttor dell' Elegia: Quis tandem exiguos elegos emiserit Auctor, Grammatici certant, et adhuc sub judice lis est. Il Patrizio nondimeno, dopo averla dedotta dai

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Treni di Lino, dice che questo nome di Elegia le fu dato da Mida, che visse dopo Lino, perchè, piangendo la morte della madre e replicando spesso questa dolente voce E, E, da lei, e dal dirla legon dinominò quel pianto Elego, e così Olimpo chiamò le poesie, e i nomi Trenetici, che egli compose, e da indi innanzi fu questa lamentevole poesia indifferentemente e Treno ed Elego chiamata (1). Scrissero Elegie Callino d'Efeso, che fiorì sul cominciar dell' Olimpiadi, cioè 776 anni prima di Cristo, e Mimnermo di Colofone, che 180 anni dopo loro diede maggior perfezione. Tal componimento venne in uso ancora presso i Latini, e ne abbiamo di Catullo, d'altri assai noti che usarono, scrivendola, gli esametri e pentametri. Ora questa poesia, conforme dall' origin sua si può dedurre, è da argomenti flebili e lagrimosi, ed ama però un modo assai patetico e affettuoso. Ma il Menzini, di lei par. lando, scrisse:

Nutrissi un tempo di querele amare

La piangente Elegia, e poscia prese Forme più dilettevoli e più rare, ec. Or, com'io dico, l'Elegia ben puote Vagar per tutto, perchè ormai non sono Di Pindo a lei le varie strade ignote (2). Della qual opinione io confesso non sapermi appagar molto; poichè altro si è il dire che co'versi

(1) Poet. Deca Istor., lib. 2, pag. 187. (2) Poetica, lib. 3, pag. 61.

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