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CAPITOLO III LE MORALISATIONES

mille forme, presso cento scrittori, in paesi lontanissimi l'uno dall'altro: che spesso emigrando dal lontano e misterioso Oriente, giunge in Europa, e quivi trasformata, modificata in guise diverse, adattata al vario gusto di popoli o settentrionali o meridionali, conserva pur sempre l'antica effigie, vive tra le plebi donde passa nei libri; sembra morire e rinasce sempre, quasi Proteo vero e Fenice non favolosa.

Vedete, per es., quella storia strana della vecchia e del cane nutrito di senapa, è dimostrato che proviene dall'Oriente, e si ritrova nella Disciplina Clericalis, nello Speculum morale di Vincenzo di Beauvais, nelle storie latine pubblicate da Wright, in molti fabliaux francesi, in scrittori italiani e tedeschi: 2 essa insomma appartiene a tutta l'Europa medievale. Potrei dire lo stesso di quasi tutte le novelle delle Gesta Romanorum, il cui contenuto ci rappresenta una parte notabilissima della letteratura leggendaria dell' età di mezzo, e che ritroviamo per conseguenza nei libri più popolari di quel tempo: nei Sette Savi, come nella Legenda aurea; nel Bellovacense come negli Otia Imperialia, come in Esopo, come nei Fabliaux, come nel Novellino e nel Decamerone.

Questa letteratura leggendaria europea merita uno studio speciale, e noi tenteremo di farlo nel seguente capitolo.

1 Vedi Schmidt, Disc. Cler., pag. 129-32.

2 Vedi l'ediz. delle Gesta di Hermann Oesterley.

CAPITOLO IV

LE LEGGENDE

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La letteratura leggendaria medievale è uno de' campi più vasti e più importanti che si presentino al nostro studio, ed è quello, nel quale, meglio forse che negli altri, si rivela l'indole morale di quella età.

È un prepotente bisogno dell'animo umano così il canto come il racconto, l'effusione del sentimento come la storia dei fatti, la lirica come l'epica. Confuse dapprima, esse tendono in seguito a separarsi, ognuna prende il suo luogo; e dal lento ed inconsciente lavoro che va operandosi in seno di un popolo, dalla saga, dalla tradizione orale, rampolla il canto storico, la leggenda, e presso certi popoli, l'epopea. La saga è uno dei prodotti più spontanei, uno dei bisogni più vivi dell'uomo, nei momenti storici, in cui domina l'immaginazione, l'amore al meraviglioso,

al soprannaturale, allo strano, a tutto ciò insomma che trascende le forze della natura.

La saga ha una vita sua propria, ha una evoluzione indipendente; essa non inventa mai, ma ripete; e ripetendo, altera, aggiunge, confonde, ma sempre di buona fede, per moto spontaneo, per obbedire ad un bisogno, di cui l'uomo non si rende conto.

Intorno alla vita del santo e dell'eroe si distende come un'atmosfera poetica, e quindi la fantasia, gli affetti, le passioni creano mille fatti, gli trasformano, gli abbelliscono; e la tradizione gli ripete di età in età, di secolo in secolo, come eco lontano della voce di un popolo. Al primo nucleo nuovi e nuovi strati vanno aggregandosi, diversi a seconda dei tempi, dei luoghi, dei climi, delle credenze, delle immaginazioni, degli affetti. È un grande lavoro, è il lavoro continuo di ogni secolo, di ogni anno, quasi di ogni ora, che si fa giù nei più profondi e più inesplorabili gorghi sociali, e che alla superficie passa inosservato; è lo svolgimento spontaneo di un fatto che va acquistando un organismo suo proprio; è l'immaginazione popolare abbandonata a sè stessa, che va fabbricandosi i suoi idoli, i suoi dogmi, tutto un mondo suo proprio, a traverso il lungo corso de' secoli: opera di fanciulli potentemente creatori di fantasmi, di sogni, d'illusioni, di maraviglie, di miracoli, che acquistano oggettività nelle loro menti, e che ogni generazione riceve dall'altra con ve

nerazione religiosa, come sacra eredità di fede e di affetto.

A mano a mano col procedere e col mutare dei tempi, la tradizione orale diventa scritta, e con questo ha principio un nuovo periodo, dove già entra qualche elemento di cultura. Siamo sempre a contatto immediato col popolo, ma ci solleviamo un poco al di sopra di esso: ai bisogni della fantasia si compenetrano la curiosità e il desiderio del racconto; la tradizione è raccolta, è composta, è scritta, è letta; della leggenda si impadronisce il monaco, il poeta, il romanziere, il novellatore; essa passa da un paese all'altro; e qui ricominciano, o piuttosto continuano, le sue trasformazioni: sullo stesso motivo ognuno compone una sinfonia diversa, ispirata dalle varie influenze che operano sull'animo umano. Si lavora sui tipi medesimi, indigeni o stranieri, contemporanei od antichi: accanto ai miracoli della madonna, del martire, del santo, stanno i miracoli di Alessandro, di Carlomagno e di Artù. Non si fa nessuna distinzione di tempi e di luoghi. Alessandro è rappresentato come un cavaliere del medioevo; il santo come un eroe dell'antichità. Tutto acquista un colorito comune, tutto serve alla leggenda, così la tradizione della vita di un martire, come la reminiscenza della guerra trojana, così Attila come Buddha, così Teofilo come Gregorio Magno.

Nel medioevo i due lati della coscienza, quello che riflette in sè il mondo esterno, e quello che

rende l'immagine della vita interiore dell'uomo, stavano come avvolti in un velo comune, sotto il quale o languivano in lento torpore o si movevano in un mondo di sogni. E codesto velo era tessuto di fede, d'ignoranza infantile e di vane illusioni; il mondo e la storia veduti a traverso di esso apparivano rivestiti di colori fantastici. Noi stentiamo, naturalmente, a renderci conto di quelle condizioni morali, di quel clima storico, dove tutto è possibile, dove le cose sono tanto più credute quanto sono più strane, dove una fede veramente cieca ottenebra gl'intelletti, dove tutti sono fanciulli, dove la teologia è la scienza sovrana, dove l'ignoranza e la superstizione si rimescolano colla più candida ingenuità, dove l'ascetismo avvizzisce e perverte i cuori, dove il cielo affoga la terra. A codesta età saturnia dell'ignoranza, quando parevano un dogma quelle parole di San Paolo ai Corintii (I, 1), che Dio aveva resa pazza la sapienza di questo mondo; a codesta età, nella quale il mondo doveva esser disprezzato, e beato chi più lo fuggisse, chi più lo maledicesse, beato l'anacoreta che vive nelle caverne, beato l'uomo che si fa sposo della povertà; a codesta età, nella quale la scienza e il demonio erano creduti fratelli, e dove questa turpe e truce e ridicola figura del diavolo signoreggia le povere

1 Burckhardt, Die Cultur d. Renaiss., trad. ital. D. Valbusa; Firenze, Sansoni, 1876.

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