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CAPITOLO V

LA LIRICA RELIGIOSA

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Ricchissima fu la produzione letteraria medievale nel campo della poesia religiosa.

Ed anche in questa noi troviamo quelle due stesse tendenze che notammo nelle poesie storiche vale a dire che essa è da un lato narrativa, didattica, panegirica per il contenuto, e imitatrice, quanto alla forma, dell' arte antica; dall' altro ha un'impronta tutta sua propria, e si svolge liberamente nel canto lirico.1

La prima serie di queste poesie attinge gli argomenti specialmente dalla Bibbia, dalle Vite de' Santi, dalla Teologia ed è propria degli uomini letterati, dei chierici, i quali, per quanto possono, si studiano di mantenersi fedeli alle forme antiche classico-pagane.

1 Vedi Bähr, Gesch. d. Röm. Lit., Die christlichen Dicher ecc., I.

Tali, per es., sono le poesie di Firmiano Lattanzio; tali l' Historia Evangelica, il Liber in Genesin, il Metrum in Exodum, in esametri, di Giuvenco; il De Fratribus Maccabeis di Mario Vittorino; la Collatio veteris et novi Testamenti di Sedulio; il De opere sex dierum di Draconzio; tali, molte poesie di Paolino di Nola, di Ennodio, di Aratore, di Venanzio Fortunato, di Colombano, di Isidoro, di Beda, di Paolo Diacono.

Di queste noi non dobbiamo occuparci, perchè la forma letteraria ch'essi hanno tentato di dare ai loro lavori, li pone in un campo affatto separato da quello della letteratura popolare. Notiamo solamente come tra questa poesia cristiana e la forma classica esista necessariamente un' assoluta incompatibilità; e come per conseguenza fosse impossibile conciliarle e produrre cosa artistica.

Uno scrittore italiano osserva giustamente che « la rettorica e la declamazione, la ripetizione eterna, illogica ed inconcludente di frasi e luoghi comuni, l'epitetare convenzionale, esagerato e falso, le lumeggiature tolte da questo o da quell'altro scritto autorevole e venerato, e altre simili qualità, rimasero nella letteratura ecclesiastica latina tanto invariabilmente, quanto la liturgia e il rituale ».1 Forme fisse, stereotipate, senza vita, senza moto, senza calore; opposizione continua tra il contenuto e la forma; arte, non dico già

1 Comparetti, Virg. nel M. E., I, 216.

riflessa, ma vecchia: tali sono i caratteri della poesia letteraria del mondo ecclesiastico medievale.

Sarebbe inutile che io facessi una classificazione di queste poesie; noterò solo che di esse alcune hanno una tendenza apologetica o uno scopo didattico, per confutare certe dottrine che si stimavano erronee ed eretiche; quali, ad es., il Psalmus contra partem Donati di Agostino; i due libri di Prudenzio contra Simmachum 2 ecc.

Di fronte a queste stanno le poesie di carattere popolare, destinate al canto, che dimenticate le leggi prosodiache, le reminiscenze della classicità, le aspirazioni letterarie, si sviluppano sotto la diretta influenza dei nuovi tempi.

Fino dai primordii del Cristianesimo in Oriente noi troviamo il canto dei salmi nelle adunanze dei fedeli; onde si ebbe una Innologia Greca ricchissima. In Occidente invece questo uso sembra che non si adottasse che nel III e IV secolo; ed un passo delle Confessioni di Agostino 3 farebbe credere che fosse Ambrogio, il quale desse il primo impulso al canto ecclesiastico, al quale doveva prender parte tutta la comunità dei fedeli.

Tra l'innologia greca e quella romana non sembra che vi sia dipendenza alcuna: l'una e l'altra si svolsero in modo proprio ed indipendente. 4

1 Bähr, op. cit., p. 11.

2 Bähr, op. cit., p. 120, 80.
3 Lib. IX, cap. VII, in principio.
4 Cf. Bähr, op. cit., 5.

Il carattere popolare degl'inni sacri non può esser messo in dubbio. L'impersonalità del pensiero vi è costante; le stesse idee e le stesse espressioni si riproducono di continuo: si aggiungono delle strofe, se ne tolgono altre, si alterano, si mutano: è una proprietà comune, della quale ognuno dispone a piacer suo:1 gl' inni più famosi non hanno un autore certo, si attribuiscono ora all' uno ed ora all'altro: così lo Stabat Mater è stato attribuito a Gregorio XI, a Giovanni XXII, a San Bernardo: il Te Deum a Sant'Agostino, a Sant'Abondo, a Sant'Ambrogio, a Sant'Ilario;

Veni Creator a Carlomagno, a Rabano Mauro e ad altri; il Dies irae a San Gregorio, a Tommaso da Celano, a Innocenzo III, a un Cardinale Orsini. Questi inni si cantano non solamente nelle chiese, ma e nei campi e sul mare, lavorando e navigando; 2 ognuno ne compone, laici e chierici, re e santi, eresiarchi e fedeli: ognuno vi trasfonde le proprie idee e i propri sentimenti; ed il popolo accoglie o rigetta, muta, raccorcia, allarga, corregge.

Una gran parte di questi inni, quelli specialmente composti da laici, è certo andata perduta;3 ma ce ne avanza pur sempre tanti da poter giudicare questo genere di poesia.

1 Ved. Du Méril, Poés. pop., p. 25-26.

2 S. Clemente d'Alessandria, Stromata, VII, 7.

3 Vedi un art. di Magnin, in Journal des Sav., an. 1844.

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Fu detto da un dotto moderno che « fra la aspirazione cristiana e l'arte v'è odio ». Ed è vero, se noi consideriamo l'aspirazione pura, il puro ascetismo che rinnega il mondo, la famiglia, gli affetti più sacri, tutta la natura, tutto il bello; che si rinchiude egoisticamente in sè stesso, vano contemplatore di misteri, empio tormentatore del proprio essere, selvaggio di spirito e di pensiero, anzi, più che selvaggio, idiota, che non sente, che non vede, che non intende nulla di questo stupendo libro della natura.

Tra siffatto ascetismo e l'arte c'è odio, c'è antitesi piena ed assoluta, l'uno esclude l'altra. Non tutti però gl' inni sacri esprimono questo stato che è così vicino alla demenza. Molti anzi di essi sono piuttosto un prodotto di quel raccoglimento dell' anima che medita, che geme, che vorrebbe disciogliersi dai legami terreni, che trema dell'inferno, che ha paura della fine del mondo: ma che pure in parte sente ancora la vita, la sente malgrado di sè stessa, ed è costretta ad esprimere questo sentimento.

Tutto quell' ammasso d'inni che ci rimane, mi pare da distinguersi in due classi; e pongo nella prima appunto quelle poesie che serbano qualche cosa di umano: ossia quelle che, pur guardando al di là della tomba, oltre il mondo, figgendo gli occhi o nel paradiso o nell'inferno,

1 Carducci, St. Lett., 12.

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