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CAPITOLO II

LE STORIE VERSIFICATE E I CANTI STORICI

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Tutta quella letteratura cronistica, di cui siamo andati parlando fin qui, ci presenta due fenomeni diversi: da una parte il tentativo che si fa per avvicinarsi al latino letterario; dall' altra, la dimenticanza di ogni regola, di ogni legge, di ogni arte antica; ed il formarsi invece di un' arte nuova, volgare, popolare.

Non intendo di fare una classificazione completa delle cronache italiane del medioevo, da questo punto di vista; ma solamente di notare l'esistenza delle due tendenze. Abbiamo una cronaca del XII secolo, intitolata: Gesta triumphalia per Pisanos facta de captione Hierusalem et civitatis Majoricarum et aliarum civitatum. Il titolo

1 Rer. It. Scr., VI.

è già molto sonoro. Se leggete il libro, ci trovate delle aspirazioni letterarie; vi accorgete che lo scrittore si è sforzato di mantenere le regole della grammatica. Ciò che dico di questa, potrei dire di molte altre cronache; di quella del Malaterra, per es., il quale dichiara di sapere scrivere meglio e peggio, limpido e pomposo, piano e facile; di Boncompagno fiorentino, che presenta il suo libro diligentiori lima correctum, e d'altri.

Paragonando la forma di queste scritture con quella della Novalesa, di Raul, del Morena, del Salimbene, di Giacomo d'Aqui, la differenza è notabile: noi ci troviamo davanti a due generi di letteratura. Negli uni è l'arte antica, immiserita e moribonda, che si strascica lentamente, forma senza vita interiore; negli altri è un'arte giovane che comincia, che non ha tradizioni, che ha movimenti rapidi e vivi, che attinge la sua forza dal popolo.

I due fenomeni sono ugualmente importanti: i primi ci ricordano i legami che il medioevo conserva tenacemente con l'antichità, con Roma, colle memorie della sua letteratura; i secondi ci fanno assistere alla elaborazione latente della nuova civiltà.

Questa stessa contrapposizione si mostra anche più nelle poesie storiche, delle quali il seguito dei nostri studii ci conduce ora a parlare.

Durante tutti i secoli del medioevo noi troviamo che si tentò di riprodurre la poesia lette

raria o classica, prodotti artificiali, i quali non erano altro che un esercizio di versificazione.

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La storia nel medioevo amò di vestirsi di forme poetiche. Io non so veramente se tra le composizioni storiche debba annoverare quel Carmen de Karolo Magno di Agilberto, l'Omero della Scuola Palatina; certo però esso non ha nulla di popolare, è anzi un saggio importante della tendenza letteraria del tempo, e dell'effetto che produceva l'azione personale di Carlo sulla cultura. Dico lo stesso dei poemi dell' Irlandese, e dei Carmina di Ermoldo Nigello,3 dove, sebbene spesso sieno dimenticate le regole grammaticali e metriche, pure è evidente lo sforzo letterario. Forse egli ha fatto suo pro in alcuni luoghi di racconti tratti dalla tradizione e dalla poesia popolare, come ha inteso di dimostrare Fauriel; 4 ma ad ogni modo questi Carmina rientrano nella classe delle opere, a cui diede origine il movimento impresso agli studii da Carlomagno.

Della fine di questo stesso secolo Ix abbiamo un documento che merita una speciale menzione per una curiosa particolarità che in esso si nota.

È il poema De bello Parisiaco del monaco Abbone, il quale fu testimone dell'assedio di Parigi fatto dai Normanni.

1 Pertz, M. G., II, 391. Cfr. Paris, Hist. Poét., pag. 34-422.
2 Mai, Aut. Clas., V, 404.

3 Pertz, M. G., II, 464.

4 Hist. de la Gaule Mérid., III, 429.

5 Pertz, M. G., II, 776.

I versi di Abbone sono brutti, contorti, barbari, oscuri; ma in questa stessa barbarie c'è una pedanteria letteraria continua. Egli si compiace di frammettere al suo detestabile latino delle parole greche, come polis, biblos, helios, cleronomos. Dice di aver composto il suo libro per esercizio letterario, mentre leggeva le egloghe di Virgilio. 1 I Fauni, i Sileni, l'Orco, Orfeo, Apollo, Vulcano, figurano nel suo poema con una compiacenza palese, e questa povera erudizione classica congiunta al più barbaro stile che possa immaginarsi, riesce a produrre un ritratto dei tempi molto caratteristico.

Ma nel poema di Abbone ci è ancora qualche cosa di più interessante: vi si trovano, come già fu osservato, le due specie di lingua latina che avevano corso simultaneamente, cioè la lingua letteraria e la lingua volgare. Abbone che cerca sempre di usare la parola più pedantesca e quindi più oscura, volendo nonostante essere inteso, ha avuto l'idea di aggiungere al suo poema delle glosse; e queste glosse non sono spesso altro che la parola più volgare messa a spiegazione di quella che lo scrittore stimava più letteraria.

Questa pedanteria fusa colla barbarie è un fenomeno assai importante, come quello che può appunto darci un'idea delle condizioni intellet

Quarum siquidem prima fuerit causa exercitationis. Tunc etenim adhuc litteratoriae tyrunculus discipline, Maronis proscindebam aeglogas (Ep. ded., pag. 778, ed. Pertz).

tuali dell'età di mezzo: delle aspirazioni impotenti verso il passato, fatte più vive in parte dal tentativo di Carlomagno; e vinte dall'attualità che s'imponeva, malgrado ogni sforzo, a tutte le menti.

Posteriore di non molto al lavoro del monaco di San Germano è il Carme panegirico di Berengario, del secolo x. L'autore è anonimo, ma sembra che sia un italiano, e probabilmente un veneto. Esso celebra il suo eroe come se fosse un eroe dell'antichità. Voi sentite le memorie classiche erompere continuamente da questi versi, dove pure spesso manca la misura, dove la grammatica non è sempre salva.

Così egli comincia:

Non ederam sperare vales laurumve, libelle,
Quae largita suis tempora prisca viris.
Contulit haec magno labyrinthia fabula Homero,
Aeneisque tibi, docte poeta Maro.

Atria tunc divum resonabant carmine vatum ecc.

E di Virgilio inserisce versi interi nel suo Carme, come in altri luoghi versi di Giovenale e di Stazio.3

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Io non voglio annettere a questo fatto una importanza maggiore di quella che possa avere;

1 Vedi Pref. Hdr. Valesii, in Rer. It. Scr., II, 1, 374.

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