Vi promettono i Fati, e nuova Troia E nuovi regni al fine. Itene intanto; Soffrite, mantenetevi, serbatevi
A questo, che dal ciel si serba a voi, Sì glorioso e sì felice stato. Così dicendo a' suoi, pieno in se stesso D'alti e gravi pensier, tenea velato Con la fronte serena il cor doglioso. Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
Già rivolti a la preda, altri le tergora
Le svelgon da le coste, altri sbranandola, 340 Mentre è tiepida ancor, mentre che palpita, Lunghi schidioni e gran caldaie apprestano, E l'acqua intorno e 'l fuoco vi ministrano. Poscia d'un prato, e seggio e mensa fattisi, Taciti prima sopra l'erba agiandosi, D'opima carne e di vin vecchio empiendosi, Quanto puon lietamente si ricreano.
Durate, et vosmet rebus servate secundis. Talia voce refert: curisque ingentibus aeger Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem. Illi se praedae accingunt dapibusque futuris: 210 Tergora deripiunt costis, et viscera nudant. Pars in frusta secant, veribusque trementia figunt: Litore aena locant alii, flammasque ministrant . Tum victu revocant vires; fusique per herbam Implentur veteris Bacchi, pinguisque ferinae. 215 Postquam exemta fames epulis, mensaeque remotae,
Poichè fur sazi, a ragionar si diero, Con voce or di timore or di cordoglio, De' perduti compagni, in dubbio ancora Se fosser vivi, o se pur giunti al fine Più de' richiami lor nulla curassero. Enea vie più di tutti, e di pietate E di dolor compunto, il caso acerbo Or d'Amico, or d' Oronte, e Lico e Gïa Ne' sospir richiamava e'l buon Cloanto. Erano al fine omai; quando il gran Giove Da l'alta spera sua mirando in giuso La terra e 'l mar di questo basso globo; Mentre di lito in lito, e d'uno in altro Scerne i popoli tutti, al cielo in cima Fermossi, e ne la Libia il guardo affisse. Venere, allor ch'a le terrene cose Lo vide intento, dolcemente afflitta
Amissos longo socios sermone requirunt ; Spemque metumque inter dubii, seu vivere credant, Sive extrema pati, nec iam exaudire vocatos. Praecipue pius Eneas, nunc acris Oronti, Nunc Amyci casum gemit, et crudelia secum Fata Lyci, fortemque Gyan, fortemque Cloanthum. Et iam finis erat: quum Iuppiter aethere summo Despiciens mare velivolum, terrasque iacentes, Litoraque, et latos populos, sic vertice caeli 225 Constitit, et Libyae defixit lumina regnis. Atque illum tales Iactantem pectore curas
Il volto, e molle i begli occhi lucenti, Gli si fece davanti, e così disse:
Padre, che de' mortali e de' celesti
Siedi eterno monarca, e folgorando
Empi di tema e di spavento il mondo, E quale ha contra te fallo sì grave
Commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani, Che dopo tanti affanni e tante stragi,
Ch'han di lor fatto il ferro, il fuoco e 'l mare, Non trovin pace, nè pietà, nè loco Pur che gli accetti? In cotal guisa omai Del mondo son, non che d'Italia, esclusi. Io mi credea, signor (quel che promesso N'era da te) che tornasse anco un giorno, Quando che fosse, il generoso germe Di Dardano a produr que' glorïosi Eroi, quei duci invitti, quei romani De l'universo domatori e donni:
E tu nel promettesti. Or come, Padre,
Tristior, et lacrimis oculos suffusa nitentes, Alloquitur Venus: O qui res hominumque Deumque Eternis regis imperiis, et fulmine terres, 230 Quid meus Eneas in te committere tantum, Quid Troes potuere? quibus tot funera passis Cunctus ob Italiam terrarum clauditur orbis? Certe hinc Romanos olim, volventibus annis, Hinc fore ductores, revocato a sanguine Teucri, Qui mare, qui terras omni ditione tenerent,
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