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do S. Pietro detto, che il fine della nostra fede è la salute delle anime nostre; soggiunse, della qual salutę studiosamente cercarono e investigarono i Profeti, i quali profetizzarono della grazia di Dio, avanti che si scoprisse; e del tempo, nel quale aveva a scoprirsi questa grazia; e della passione e della gloria del Signor nostro Gesù Cristo: a'quali fu rivelato, che queste cose non dovevano verificarsi a' tempi loro, ma a' tempi nostri, come già è adempiuto per li predica tori dell'Evangelo: i quali avendo ricevuto lo Spirito Santo dal Cielo, hanno predicato quelle cose di Gesù Cristo, che ancora gli Angeli sempre desiderano contemplarle. E questo è quanto i Santi Padri c'insegnarono dello Spirito Santo. Resta, che per por fine al misterio della Santa Trinità, facciamo un breve epilogo delle cose dette da S. Attanasio, e di quanto ultimamente disse dello Spirito Santo, e della perfezione della Fede della Santa Trinità, acciocchè in questi tre simboli nessuna parte resti, che non sia da noi ben considerata.

Quando s'incominciò a parlare della incarnazione del Signor nostro Gesù Cristo, io vi dissi, che non voleva seguir l'ordine tenuto da S. Attanasio, il quale volle prima finir tutto quello che toccava alla fede della Santa Trinità, e poi cominciò a parlare della Incarnazione; ma voleva seguir l'ordine tenuto dagli Apostoli: i quali non senza buona ragione, come allora fu detto, avanti questa parte, che tocca allo Spirito Santo, ove si termina la perfezione della fede della Santa Trinità, vollero spedire tutto quello, che toccava alla persona del Figliuolo, non solo quanto alla natura Divina, ma ancora quanto alla Umana. Perciò fu bisogno lasciare alcuni versi d'Attanasio, e saltare a quella parte, nella quale cominciò a trattare della Incarnazione: a' quali versi

ritorno oggi. Ricordatevi, che S. Attanasio aveva esposto quelle cose, che sono comuni a tutta la Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo: che sono queste. L'esser increato, infinito, eterno, onnipotente, Dio, Signore, le quali tutte senza moltiplicazione, e distinzione convengono alle tre perso→ ne, perchè sono uno increato, uno infinito, uno eterno, uno onnipotente, uno Dio, uno Signore. Aveva ancora esposto quello che è proprio al Padre, che è, non avere in modo alcuno origine da altri: quello che è proprio al Figliuolo, che è non avere origine, come hanno le creature, ma essere eternalmente generato dal Padre solo. Segue poi quello, che fu lasciato, che tocca alla proprietà dello Spirito Santo, e dice. Spiritus Sanctus a Patre, et Filio non factus, nec creatus, nec genitus, sed procedens. La proprietà dello Spirito Santo è, non aver origine, come le creature fatte, e create, non aver origine, come il Figliuolo, che è dal Padre solo, ma aver origine dal Padre e dal Figliuolo insieme. Perciò non lo chiamare ingenito, come il Padre, nè genito o nato, come il Figliuolo, ma originato e procedente, per usare il parlare, usato da' Santi, dal Padre e dal Figliuolo. Conclude poi qual conviene, che sia la fede della Santa Trinità in due regole, La prima è: Unus ergo Pater, non tres Patres, unus Filius, non tres Filii, unus Spiritus Sanctus, non tres Spiritus Sancti. Come confessate un Dio, non tre Dii; così dovete confessare in quella una natura Divina indivisa, e non moltiplicata, un Padre, non tre Padri: un Figliuolo, non tre Figliuoli: uno Spirito Santo, non tre Spiriti Santi. Pigliando, come abbiamo detto questa parola, come un nome proprio, e non come due nomi. La seconda regola è; Et in hac Trinitate, nihil prius, aut posterius, nihil majus, aut

minus, sed totae tres Personae coaeternae sibi sunt, et coaequales. In questa Santa Trinità, non è, nè prima, nè poi nè maggiore, nè minore: perciocchè non è prima il Padre e poi il Figliuolo, nè prima il Padre e il Figliuolo e poi lo Spirito Santo, non è maggior il Padre del Figliuolo, ně maggiore il Padre e il Figliuolo dello Spirito Santo; má tutte queste tre persone sono insieme eterne, insieme uguali, e nel l'eternità non ha luogo prima e poi, e nella equalità non há luogo maggiore e minore. Ben sò io ciò che si disputa nelle scuole, de' priori e posteriori, de' signis originis, e simili concetti, i quali sono esercitazioni degl' ingegni, poco necessarî alla verità della via della salute, da noi in questo luogo cercata. La ragione di quanto ha detto questo buon Santo della Santa Trinità, è questa, alla qual sempre nelle nostre meditazioni e ne' nostri ragionamenti dobbiamo aver l'occhio. Ita ut per omnia, sicut jam supra dictum est, et Unitas in Trinitate, e Trinitas in Unitate veneranda sit. Credendo in questo modo, s'adora nell'Unità della Divina essenza la Trinità delle persone, e la Trinità delle persone nell'Unità dell'essenza, ove consiste la vera cattolica e Cristiana fede differente da coloro, che adoravano più Dii, e da coloro, che non volevano in quella Divinità più che una sola persona: Qui vult ergo salvus esse, ita de Trinitate sen tiat. Alla salute bisogna avere questa fede della Trinità, senza la quale non si salvò, nè si salverà mai anima alcuna. E con questa fede dobbiamo adorar Dio, dicendo: Io adoro Iddio Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Dobbiamo ne' nostri bisogni ricorrere all'aiuto suo, dicendo: Io invoco Iddio Padre, Figliuolo, e Spirito Santo. Dobbiamo cominciar tutte l'opere nostre, dicendo: Nel nome del Padre, Figliuolo e Spirito

Santo. Dobbiamo dargli grazia de' ricevuti doni e benefizî, dicendo: Sia gloria a Dio Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Al quale il buono e Santo Vescovo Agostino, trovandosi nella sua Chiesa d'Ippona, col suo divoto, e obbediente popolo, oppresso da quelle calamità, che porta la lunga guerra; dirizzò quella orazione, che io già vi mandai, tutta piena d'affetto è di vera confessione. Sopra la quale voglio farvi un discorso, acciocchè essendo infino a qui stata detta, da tutti voi particolarmente, sia ora da ciascuno bene intesa, e da ora innanzi detta con migliore intelligenza, e maggior gusto di quanto si contiene in quelle buone e sante parole.

DISCORSO

Sopra una orazione, la quale fece S. Agostino essendo asssediato col suo popolo nella città d' Ippona da infedeli.

Ante oculos tuos, Domine, culpas nostras ferimus, et plagas, quas accepimus, conferimus. Avanti a gli occhi tuoi Signore noi portiamo le nostre colpe, e portiamo insieme le piaghe, che abbiamo ricevute. Molte persone erano, che in quello spaventevol tempo di guerra, in que' pericoli, che ci soprastavano, dell' onore, delle robe, e della vita in quelle furie di commissarî, in quelle violente esazioni, inque'duri sequestri, in quelle angarie di guastatori, in quelli spaventi di non avere a patir peggio da' nemici, se pure spuntavano, il che non piacque a Dio. Molte persone erano, dico, che ad altro non pensavano, che a quelle piaghe, che allora ricevevano. Perciò in questa orazione S. Agostino insegnava al suo popolo a pensare due cose: cioè, i

peccati commessi e le pene ricevute per medicina, e purgazione de' peccati: insegnava a portare avanti agli occhi del Signor Dio, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, l'uno e l'altro: confessando avere ingiustamente peccato, e giustamente patito alcuna pena de' peccati commessi, dicendo: Eccoti Signofe i nostri peccati, eccoti la pena da noi patita. Minus est quod patimur, majus est, quod meremur. O beate quelle anime, che col cuore hanno detto, e dicono queste parole. Meno è quello che patiamo, di quello che meritiamo. A dire col cuore queste parole, bisogna, come in una parte della bilancia porre i peccati, e nell' altra le piaghe e le pene mandate da Dio per li peccati, e confessare, che minore è la pena di quello che meritiamo per punizione de' peccati. E voi per avventura direte: Tu c'insegni il contrario di quello che c'insegna Giob: il quale desiderava, che si pesassero i suoi peccati con l'aspra pena e calamità che egli pativa, e diceva: che molto più grave si troverebbe la sua pena della colpa. Non v'ingannate, perchè Giob fu un uomo propostoci da Dio, per esempio di perfetta pazienza, la quale consiste in tollerare pazientemente le cose avverse, ancora che siano maggiori di quello, che l'uomo giustamente meriterebbe, come molti Santi Martiri tollerarono pena più grave di quello, che avevano per qualche lor peccato meritato. Giob adunque in quella parte non c'insegna a dire come lui; eccetto quanto fossimo certi d'essere simili a lui di bontà, e di perfetta pazienza; ma essendo come noi siamo; sicuramente posTM siamo dire, come S. Agostino c'insegna, e ancora più oltre: Peccati poenam sentimus, et peccandi pertinaciam non vitamus. Sentiamo la pena del peccato, ma non perciò ci allontaniamo dalla pertinacia di perseverare nel peccató. Già Seripando Prediche

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