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la verginità (1); troviamo i carbonchi che fanno lume (2). Si direbbe quasi che lo scrittore abbia voluto rappresentarci il proprio stato intellettuale nell'insegnamento che fa dare a Florio e a Biancofiore da Racheo, il quale fece loro leggere « il Saltero e il libro d'Ovidio (3) ». Abbiamo infatti in queste pagine una vera mescolanza dell'uno e dell'altro; abbiamo due voci discordanti che sembrano provenire quella dal cielo e questa dalla terra, quella dal passato e questa dall'avvenire.

Da questo stesso fatto deriva che la pittura dei caratteri non è vera. Florio qualche volta pare un eroe dell'antichità, qualche altra un piagnucoloso fanciullo che non sa che consumarsi in vane parole. Il re Felice e sua moglie sono ora buoni e generosi, ora traditori e scellerati; Biancofiore stesso, la figura meglio tratteggiata, non ha una fisonomia sua propria; la sua passione non è vera; le sue parole, i suoi atti, si avvolgono nell'artificio.

Dalla contradizione stessa deriva la prolissità del libro. Tutto si trascina in parlate lunghissime, in descrizioni e racconti che non hanno mai fine. La mancanza della verità crea il bisogno dell'esagerazione e dei più minuti particolari.

Questi sono i difetti del Filocopo, difetti che, come già dicemmo, derivano in gran parte dallo stato della mente del Boccaccio.

Presso ai difetti però non mancano i pregi. Già il futuro scrittore del Decamerone (4) si palesa il pittore dai caldi colori, il pittore della bellezza umana guardata con occhio avido e sereno. Le due giovinette Edea e Calmena, che Florio incontra nel giardino, sono già due graziose figurine del Rinascimento: « I loro occhi pareano mattutine stelle, e le picciole bocche di colore di vermiglia rosa, più piacevoli diveniano nel muoverle alle note della loro canzone. I loro capelli come filo d'oro, erano biondissimi, i quali alquanto crespi s'avvolgevano in fra le verdi fronde delle loro ghirlande (5) ». E là in quel giardino, più che Florio è lo stesso Boccaccio, l'amante di Maria, il giovane poeta appassionato e sensuale, che aveva la testa dell'una in grembo, e dell'altra il delicato braccio sopra il candido collo; e sovente un sottile sguardo metteva l'occhio tra il bianco vestimento e le colorite carni, per vedere più apertamente quello che i sottili drappi non perfettamente coprivano (6) ».

Cosi del pari già annunzia certe scene del Decamerone l'incontro di Florio in Biancofiore addormentata (7). Vero e bene espresso è l'affetto di Giulia per Lelio (8), ed in certi luoghi l'analisi della passione è fatta con mano maestra, come per esempio quando Biancofiore separata dall'amante, riceve lieta e con aperte braccia le arie di vento che vengono dalla parte dove si figura ch'ei sia, pensando che già esse aveano baciato il suo Florio; e quando va baciando tutti i luoghi della casa, dove già erano stati insieme (9).

Una questione assai grave è quella se la materia del Filocopo sia d'invenzione del Boccaccio o di altri. Prima di risolverla occorre che noi vediamo ciò che egli stesso ne dice in proposito. Che cosa dette occasione a questo libro? Racconta il Boccaccio che incontratosi colla Fiammetta in un tempio, « venuti d'un ragionamento in altro, dopo molti venimmo a parlare del valoroso giovane Florio, figliuolo di Felice, grandissimo re di Spagna, recitando i suoi casi con amorose parole. Le quali udendo la gentilissima donna, senza comparazione le piacquero, e con amo

(1) Vol. II, lib. IV, p. 141.

(2) Vol. II, lib. IV, p. 178.

(3) Lib. I, p. 76.

(4) Del Decamerone c'è nel Filocopo il disegno e quasi il germe. Vedi il mio studio I Precursori del Boccaccio e alcune delle sue fonti, pag. 64.

(5) Vol. I, lib. III, p. 230.

(6) Vol. I, lib. III, p. 231.

(7) Vol. II, lib. IV, p. 179.
(8) Vol. I, lib. I, p. 41.
(9) Vol. I, lib. II, 120.

revole atto verso di me rivolta (1) » pregò che la pietosa storia non fosse più « lasciata solamente ne' fabulosi parlari degli ignoranti (2) », ma ne fosse composto << un piccolo libretto, volgarmente parlando (3) ». Qui, come sembra, parrebbe accennarsi ad una fonte popolare del racconto. Altrove invece la fonte potrebbe intendersi che fosse stata diversa, cioè qualche libro greco, a noi sconosciuto, dicendo il Boccaccio che Ilario « con ordinato stile... in greca lingua scrisse i casi del giovane re (4) » ed anzi sembrando che egli citi codesto libro come quello al quale egli attinse, poichè invoca « la lunga fatica d'Ilario come veridico testimonio (5) » della verità di ciò che ha narrato.

Noi abbiamo infatti delle traccie che potrebbero confermare e l'una cosa e l'altra.

Non può esser messo in dubbio che la storia di Florio fosse popolare nel Medio evo. Abbiamo intorno ad essa una canzone francese del secolo XII o XIII, che ha tutti i caratteri della popolarità (6); abbiamo la prova che codesta storia si cantava ed era uno degli argomenti più graditi.

D'un dous lai d'amour

De Blancheflor
Compains, vos chanteroie,
Ne fust la peor

Del traitor

Cui je redotteroce (7).

Abbiamo due poemetti pure francesi sullo stesso argomento, del secolo XIII, l'uno dei quali sembra che fosse destinato a divertire il volgo (8). Ed abbiamo poi l'altro fatto, notabilissimo, che tutte le letterature europee possedevano quel racconto (9). Ciò significa evidentemente che la storia di Florio faceva parte della letteratura leggendaria, alla quale potrebbero alludere le parole del Boccaccio: «< i fabulosi parlari degli ignoranti ».

Se, d'altronde, si volesse prestar fede al lungo e minuto ragionamento di Du Meril, noi dovremmo credere che le varie ramificazioni di questa storia nella letteratura di Francia, di Germania, di Fiandra, di Svezia, di Danimarca, di Inghilterra, di Spagna, d'Italia, risalissero ad una fonte comune, che sarebbe stato un

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(6) Fu pubblicata più volte, da P. Paris, da Wolf, da Le Roux de Lincy. Comincia:

Floires reviene seus de Montoire

Cui fine amors a prés au laz.

Ses duex et ses panses avoire,
De que s'espere est en porchaz.
S'il i ala dolanz et maz,

Son duel lui vuet encor acroire.

Que si cruel li fera boire,

Dont il n'atendra nul solaz.

(7) Du Meril, Floire e Blancheflor, Introduz. pag. XIV. - Histoire de la Poés. Scandinave, pag. 341-42.

(8) Du Meril, op. cit., pag. XXI.

(9) Ivi.

BARTOLI. Letteratura italiana.

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romanzo bizantino; ed in tal caso sarebbero anche spiegate le parole relative alla lunga fatica d'Ilario ».

Risolvere con sicurezza una tale questione è per ora impossibile. Non impossibile invece è dimostrare che il Boccaccio, scrivendo il Filocopo, non andò come alcuni vollero, sulla falsariga del poemetto francese.

Ai due testi pubblicati da Du Meril manca tutta la lunga storia di Lelio e Giulia; e quest'ultima (che nel Filocopo viaggia col marito, e in uno dei due testi francesi col padre) non è detto, come nel Boccaccio, che muoia, anzi nella redazione seconda, la madre di Blanchefleur vive ed è poi condannata a morte colla figlia:

Damoisele, venez au roi

E votre mère i amenez
Andeus vos covenra morir.

Nel Filocopo non si trova la minaccia che fa il re di far morire Blanchefleur. La prima redazione francese non ha nulla della lunga storia del veleno che occupa molte pagine del Boccaccio; ed invece essa si trova nella redazione seconda, la quale in tutto il resto diversifica molto più dal Filocopo. Nel Boccaccio è la regina che proponeva al re di fargli presentare da Biancofiore « un pollo o altra cosa », la quale celatamente di veleno sia piena », acciocchè poi egli possa far prendere la fanciulla e subitamente giudicare per tale offesa al fuoco ». Invece nel testo francese è il siniscalco che medita questo tradimento:

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Ed è poi la regina che intercede caldamente per la fanciulla :

Sire, merci de ma pucele,

La cheitive m'avez donée,

Ne soffrez pas que l'en l'ocie,
Trop feriez grant felonie.

Dopo il combattimento tra Florio e il Siniscalco (che manca alla prima redazione francese), la redazione seconda passa subito alla vendita di Blanchefleur. Mentre nel Filocopo, prima di giungere a questo, si ha la scena delle due fanciulle Edea e Calmena, l'amore di Fileno, la gelosia di Florio.

Queste e molte altre differenze dimostrano abbastanza che, se anche la sostanza del racconto, come fornito da una comune tradizione, è uguale nel Boccaccio e nel poemetto francese, i particolari diversificano troppo per poter sostenere che lo scrittore italiano copiasse il trovero francese (1).

(1) Il Filocopo dette origine ad una storia popolare di Florio e Biancifiore. Non si può dubitare che la sorgente di questa non sia il libro del Boccaccio, perchè lo segue in tutte le circostanze del raccontc.

Comincia così:

Lo stesso studio che abbiamo fatto del Filocopo, dovrebbe farsi di tutte le altre opere minori del Boccaccio. Ma ciò in questo libro non essendoci possibile, passiamo invece ad esaminare rapidamente il Decamerone.

Un cavaglier di Roma anticamente
Prese per moglie una gentil donzella,
Ch'era molto rica e molto possente
D'oro e d'argento e di molte castella.
Di lei non poteva aver figliol sciente
Di quella fresca rosa tenerella:
A santo Jacobo impromesse d'andare
Se la moglie potesse ingravidare.

Dentro in Roma si fe' la promessione
Stando nel palazzo di la milizia.
La donna gravida in quella fiata fone,
E tutta la corte n'ebbe gran letizia.
Poi prese la scarsella e lo bordone
Per andar all'apostolo di Galizia.

El nome del barone vi contaragio,

Se m'ascoltati, che andava in viagio.

Tre edizioni di questa Storia esistono nella Biblioteca Palatina di Firenze. Quella del-l'anno 1549 ha innanzi un'ottava, la quale sempre più chiaramente ci dice che il poemetto era recitato al popolo.

O buona gente vi voglio pregare

Che il mio ditto sia bene ascoltato,
Che vi conterò un bel cantare,
Massimamente chi è innamorato,
Che li piacerà in cotal affare,

E ciascheduno sia pregato,

E così dirove de Fiorio e Biancifiore
Che insieme s'alevarno co' gran amore,

La Storia termina così:

Fiorio si misse andar per l'alto mare
E arrivò poi nella bella Toscana,
E tornò in Spagna e fessi battizzare
Con Biancifiore alla fede cristiana,
E a tutta la sua gente il simil fare
Alla fede catolica santa romana,
E cento anni visse con Biancifiore,
E la istoria è finita al vostro onore.

Nella edizione del 1587 si sente la mano di qualche poeta popolare, un po' meno ignorante. L'ultima ottava, per esempio, è rifatta in questa guisa:

Et Florio ritornò di qua dal mare,
Et arrivò nella bella Toscana,
Andò in Spagna, e fece battezzare
Il re Felice e sua madre pagana,
Con tutta la sua gente il fe' tornare
A nostra fe' cattolica e cristiana,
Di Roma fu poi eletto Imperatore,

E visse tempo assai con Biancifiore.

Che gli scritti del Boccaccio abbiano servito in tempi posteriori ai poeti popolari si può ritrarre anche dalla Historia di Gualtieri Marchese di Saluzzo, che non è altro che la bellissima novella della Griselda sciupata in brutte ottave.

CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO

IL DECAMERONE.

Esaminiamo quelle che furono chiamate le fonti del Decamerone, e che a noi sembran piuttosto attinenze con altri racconti della novellistica medievale.

Si trovò qualche relazione (1) tra la novella di Andreuccio da Perugia (G. II, 5), e il fabliau De Boivin de Provins (Barbazan, III, 357).

Esaminiamo il contenuto dell'uno e dell'altra:

Boivin va alla fiera di Provins. Quivi

Une borse grant acheta,

Douze deniers dedenz mis a;
Et vint en la rue aus putains
Tout droit devant l'ostel Mabile
Qui plus savoit barat et quile (2)
Que fame nule qui i fust.

Quindi si asside sopra una panca che era fuori della casa, e si mette a contare i propri denari, a fare i conti delle proprie ricchezze. Lo sentono i giovinastri che frequentano quella casa: li houlier de la meson, e dicono a Mabile:

Dient, ça vien, Mabile, escoute,

Cil deniers sont nostre sans doute,

Se tu mis ceens ce vilain.

Mabile risponde che considerino la cosa come già fatta. Il villano intanto continua a contare i suoi denari, e poi dice che se avesse presso di sè una sua nipote, figlia di sua sorella Tiece, le donerebbe tutto quello che possiede; e seguita narrando come essa parti già da molto tempo dal suo paese, e come invano ei l'abbia fatta cercare; e la chiama anche a nome

Ahi, douce niece Mabile,

Tant estiiez de bon lingnage,

Dont vous vint ore tel courage?

Mabile esce fuori della casa, s'asside presso di lui, e gli domanda chi ei sia. A cui Boivin risponde: io mi chiamo Fouchier de la Bruce; ma voi somigliate alla mia dolce nipote. Essa risponde che è infatti sua nipote, e lo abbraccia e lo bacia. Intanto escono dalla trista casa «li houlier », e domandano a Mabile se quell'uomo

(1) Vedi Dunlop, pag. 223; Landau, pag. 39.

(2) Furba e canzonatrice.

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