Che parla d' una donna disdegnosa, 2 Che fa chinare gli occhi per paura; Ché d'intorno da' suoi sempre si gira 3 Trae li sospiri altrui fuora del core. Verso d'alcun, che negli occhi mi guardi ; Questa, che sente Amor negli occhi sui. Contra il disdegno che mi dà Amore." Nel Convito, tr. III, cap. 9, dice Dante queste parole: Prima ch' alla composizione (della Canzone Amor che nella mente) venissi, parendo a me questa donna (la Filosofia) fatta a me fiera e superba alquanto, feci una Ballata, nella quale chiamai questa donna orgogliosa e dispietata, che pare essere contro a quello che si ragiona qui di sopra. E nel cap. 10: Allora non giudica come uomo la persona, ma, quasi com' altro animale, secondo l'apparenza, non discernendo la verità: e questo è quello perchè il sembiante, onesto secondo il vero, ne pare (secondo l'apparenza) disdegnoso e fero. E secondo questo sensuale (e però non razionale) giudicio, parlò quella Ballatetta. Qui dunque ne fa saper l'Alighieri d'avere scritto una Ballata, nella quale, a differenza della Canzone seconda del Convito, ove chiama la Filosofia cortese e benigna, va rappresentando la stessa femmina intellettuale qual donna apparentemente chiusa a pietà, e va chiamandola fiera e disdegnosa : << Chè questa donna, che tant' umil fai, (o Canzone) E qual'è quella Ballata, se non è la presente, nella quale si trovano appunto dati gli epiteti di disdegnosa e fera alla donna, che della Ballata medesima forma il subietto? « Udite la Ballata mia pietosa, Che parla d'una donna disdegnosa, » v. 2, 3. « Così è fera donna in sua beltate Nissun' altra Ballata fra tutte quelle che del nostro Poeta si hanno, si rinverrà, la quale sì come questa dir Dante ne' passi qui sopra allegati. Col nome dell' Alighieri fu impressa possa la rammentata da nella raccolta de' Giunti a c. 19 retro, e niuno de' successivi editori omise di riportarla. Col nome dell' Alighieri vedesi pure nel Codice Palatino, e ne' Laurenziani 37 e 135 del Plut. XC. 1 Pietosa, degna di compassione. Tanto disdegna. Il soggetto del verbo è la donna disdegnosa nominata di sopra. Si virtuosa, così piena di virtù; e si riferisce a quella dolce figura, cioè Amore, che poco sopra ha detto far dimora dentro gli occhi della sua donna. 4 Quel Signor gentile, cioè, Amore. 5 Che così gli guardi, che così gelosamente li custodisca. - E certo io credo, ripiglia a dire il Poeta, per ciocchè il discorso, ch' ei pone in bocca alla donna, termina colle parole suoi dardi. 6 A quella guisa, altri testi: a questo modo. Per sua pietate, è lez. del Codice Palatino, molto migliore della comune per la pietate. 8 Ma quanto vuol nasconda e guardi lui, ma nasconda alla vista degli uomini, e custodisca gelosamente Amore quanto ella vuole, e lo nasconda così, che io ec. I miei desiri avran virtute Contra il disdegno che mi dà Amore, può intendersi in due modi: i miei desiri, che mi dà Amore (il gentil Signore che la sua donna porta negli occhi) mi daranno virtù contra il disdegno di questa donna; ovvero: i miei desiri, così intensi ed ardenti, mi daranno virtù contra il disdegno che mi mostra questa donna per cagion dell' amore ch' io le porto. Al poco giorno, ed al gran cerchio d'ombra Si sta gelata, come neve all'ombra, Quand' ella ha in testa una ghirlanda d'erba 8 9 10 Più forte assai che la calcina pietra. Si fatta, ch' ella avrebbe messo in pietra Ond' io l'ho chiesta in un bel prato d' erba E chiuso intorno d' altissimi colli. Ma ben ritorneranno i fiumi a' colli 17 16 Tutto il mio tempo, e gir pascendo l' erba, Quel genere di Sestina, di che tanto si piacque il Petrarca, era un componimento proprio de' Provenzali, e per esso erasi distinto Arnaldo Daniello, il quale se ne dice altresì l'inventore. Il primo per altro che, imitando i Provenzali, arricchisse l'italiana poesia d'un componimento siffatto, fu Dante Alighieri con questa e con le altre due sue Sestine, per le quali diè fin d'allora a divedere, che la lingua nostra poteva atteggiarsi alle forme d'ogni più scabro componimento. E scabro componimento si è appunto la Sestina, dappoichè, come notai nella Dissertazione, i sei versi delle sue sei stanze (oltre i tre del commiato) debbono terminare colle medesime voci, con ordine alternativamente inverso, lo che richiede nel Poeta molta copia di concetti e grande artifizio. Questa Sestina vedesi col nome di Dante Alighieri nella Giuntina edizione del 1527 a c. 31 retro, ed in tutte le successive ristampe, non meno che ne' Codici Laurenziani 42, 44, 46 del Plut. XL, e 136 del Plut. XC, in alcuno de' Riccardiani, nel Palatino, ed in altri. Ogni dubbio intorno l'originalità di essa verrà a dileguarsi, quando si sappia che Dante istesso la citò per due volte sì come sua nel Trattato del Volgare Eloquio: la prima al lib. II, cap. 10, la seconda al libro stesso, cap. 13. Unite alla Sestina presente, e tutte col nome di Dante Alighieri, i Giunti rinvennero in un antichissimo testo a penna le altre due Amor mi mena ec., Gran nobiltà ec., che qui appresso seguono, e le stamparono a c, 131 della loro raccolta. A chi riguardi alquanto sottilmente apparirà manifesto, che l' una appartiene allo stesso autore delle altre; imperciocchè nell' una e nelle altre è la stessa orditura, le stesse voci finali, la stessa disposizione, lo stesso tuono, l'istesso andamento, lo stesso stile. Nell' una e nelle altre va il Poeta trattando l'argomento medesimo, ch'è quello non tanto di parlare d'una donna bella, giovine e gentile, la quale vestita a verde, ed aventesi in testa una ghirlanda d'erba, giva danzando per piani e per colli; quanto di far lamento della di lei durezza e insensibilità, protestando il Poeta, che il suo amore non sarà mai per venir meno, ed esprimendo la sua speranza di riuscire alla perfine ad aver gioia e piacere di lei. Se l'una pertanto è, com'è di fatto, opera dell' Alighieri, debbonlo esser pure le altre due, a meno che non si provi che un anonimo fino dal secolo decimoquarto (perciocchè Bernardo Giunti che viveva nel 1527 disse antichissimo il Codice) si proponesse d'imitare lo stile del nostro sommo Poeta, sotto nome del quale pubblicar volesse i propri componimenti, e che si fosse cotanto abile e valoroso da riuscirvi nel modo che in queste due Sestine si vede. Finattantochè non si dia prova di ciò, e si rechino in mezzo de' fatti, io 'andrò ritenendo che tutte e tre siano lavoro di Dante Alighieri. E che tutte e tre di esso siano, mostrarono infatti di credere il Quadrio nella Storia e ragione d'ogni poesia, vol. II, p. II, il Castelvetro nelle Giunte al lib. I delle Prose del Bembo, e il Crescimbeni nel libro I de' Commentarj della Volgar poesia. Non punto agevole si è il determinare se la femmina bella, giovine e gentile, della quale in questi tre componimenti va parlando il Poeta, sia una donna vera e reale, o sivvero la Filosofia. Quanto a me, propenderei a crederla la nobilissima femmina allegorica, oggetto dell'amore intellettuale di Dante; ma non istarò ad esporne le ragioni, perciocchè altrettante se ne potrebbero portare da chi si facesse a sostenere l'opinione contraria. In questi primi tre versi va significando il Poeta ch' egli è pervenuto all' invernale stagione, nella quale il giorno è breve, una oscurità maggiore cuopre il nostro emisfero, i colli biancheggiano per la neve, e l'erba, perdendo il suo colore, inaridisce. 2 Intendi: ma il mio desiderio amoroso non vien meno, non rimette punto della sua vivacità. 3 Barbato, barbicato, radicato. Il dolce tempo, che riscalda i colli, vale a dire la dolce Primavera. Il crespo giallo, la chioma color d'oro. Così il Petrarca: Tessendo un cerchio all' oro terso e crespo. Il verde, sottintendi, della ghirlanda d'erba. Si bel, sì bellamente, sì vagamente. 8 Che, quell'Amore che. 9 Intendi: le sue bellezze hanno più virtù, di quelle che n'abbian le pietre; alle quali gli antichi attribuivano molte virtù. 10 Vale a dire e le ferite prodotte da lei non possono esser sanate per 5 Perchè, sottintendi, squagliate le virtù d' erbe. nevi. 11 Ed al suo viso è lez. del Cod. Pa |